"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 11, settembre 2005

 


              Marlene Dietrich: parole per la Musa

 

 

 

       7.  Arco di Trionfo

 

 

 


 

Erich Maria Remarque (1898-1970) era un uomo bello, caramelloso e fragile (di “stupefacente vulnerabilità” scrive Maria Riva, la figlia di Marlene). Con Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929) subì un successo che Manganelli non avrebbe esitato a definire catastrofico: tradotto in tutte le lingue, si vide seppellito come un Paperone nel suo deposito dai soldi dei diritti d’autore che gli arrivavano da ogni angolo della terra incessantemente: era infatti il libro più venduto al mondo dopo la Bibbia!…

Ricchissimo e per di più fascinoso, amico del jet-set e dunque di attrici meravigliose, come scrittore non concluse più molto per molti anni: da ciò nevrosi per un’identità professionale incerta. Tanto più che il suo modello era Thomas Mann.

 

*°*

 

L’amore con Marlene ne segna la vita come uno spartiacque, e infatti l’altro suo romanzo di abnorme successo internazionale è quello rimuginato e scritto tra il 1938 e il 1945, Arco di Trionfo, dove i due peritosi amanti sono proiezioni evidenti di Remarque e di Marlene.

 

Bisogna riconoscersi sempre schiavi felici del meraviglioso Heisenberg, quando si parla di libri: quindi - oggi e qui, domani chissà - Arco di Trionfo suona un libro kitsch fino all’estremo, il prodotto levigatissimo (sette anni per scriverlo!) di una Liala hemingwaiana.

 

Al centro Ravic, un medico che vive clandestino a Parigi in un albergo di infimo ordine,  che sembra tanto il Bogart di Casablanca: essendo un romantico ferito spande cinismo da ogni respiro, fumatore perenne, antinazista scappato in Francia, non beve acqua ma Calvados, e  salva chiunque anche a costo della prigione. Con le donne ha relazioni spicce e marlowiane, il che dovrebbe essere segno di un grado estremo di pudore, se non fosse che questo dottore dal cupo disincanto – un esistenzialista (La Nausea è del 1938) - non lo è al punto da risparmiarsi fiumi di sentenze, aforismi e glosse acidule al male di esistere. Questo parlare sentenziando, per apoftegmi in apparenza lasciati cadere sulla pagina come cicche sul marciapiede, naturalmente si vorrebbe duro e scabro: come per lampi di virilità definitiva al cospetto del destino baro e di uomini sempre e comunque lupi gli uni degli altri.

 

E invece non finiscono mai: “siamo come scintille in un vento ignoto”; “Tutti gli equivoci nascono dal voler capire”; “Ci si può fare anche illudere dalla realtà. Ed è un sogno ancor più pericoloso”; “Il miglior carattere lo hanno i cinici, il più insopportabile gli idealisti.” “Chi spiega difende”; “Nessuna spiegazione. Le spiegazioni sono banali. E, nel campo del sentimento, spiegazioni non ce ne sono”; “Come insegnano cinquemila anni di biologia, l’amore rende acuta la vista della donna e confusa quella dell’uomo”, eccetera

 

Già dopo qualche capitolo potrebbero risuonare smarronanti come i proverbi implacabili di padron Toni nel micidiale Malavoglia, e invece si va avanti per 500 pagine: ce n’è da riempire bigliettini per cariole di baci perugina, di quelli per innamorati depressi che amano l’amaro compiacimento di sé.

A parte tanta gnomica ossessione, siamo comunque in quel tipo di sintassi lì, nel trionfo dell’impressionismo da paratassi, per catene di frasi nominali: come telegrammi lunghissimi di frasi brevissime: “Girò la doccia. L’acqua fredda si rovesciò sulla sua pelle. Respirò profondamente e si asciugò. Conforto delle piccole cose. Acqua, respiro, pioggia di sera. Anche questo lo sa appena chi è solo. Gratitudine della pelle.”

Eccetera

 

E poi, come nei romanzi di Dumas, che infatti si faceva pagare a riga con sconcerto del papà che invece sapeva quanto è duro il soldo guadagnato da vero lavoro, dialoghi più sottili della Pioggia nel pineto:

“Paura?”

Accennò di sì.

“Di me?”

“No”.

“Di fuori?”

“Sì”.

Ravic chiuse la finestra.

“Grazie”, disse lei.

 

*°*

 

 

Ottimo per il cinema, che come si sa s’impossessò presto del libro (Arco di Trionfo, 1948, regia di L. Milestone), Ravic è però catastrofico quando pensa:

 

“Noi non moriamo” sussurrò nelle braccia di Ravic.

“No. Noi no. Solo il tempo, questo dannato tempo. Esso muore di continuo: noi viviamo, continuiamo a vivere. Quando ti svegli è primavera e quando ti addormenti è autunno, e mille volte nell’intervallo è inverno ed estate, e, se ci amiamo, siamo eterni e indistruttibili come il battito del cuore, e la pioggia, e il vento. Mia amata, noi vinciamo nei giorni e perdiamo negli anni; ma che importa?”

 

E qui non siamo che a un terzo del romanzone. Eppure, lei non lo ucciderà.

 

Quanto alla Dietrich, che nel romanzo è Joan Madou, è descritta per esempio così: “Una bellezza eccitante e perduta con sopracciglia alte e un volto il cui segreto la sua esplicitezza. Un volto che non celava nulla e proprio per questo nulla rivelava. Non prometteva niente e con ciò stesso tutto.”

Ha ovviamente l’anima misteriosa che ci aspettiamo: è laconica, egoista, poligama, bugiarda, e certo affascinante, anche se non come una Grazia del Botticelli ma come una Circe catastrofica. E Remarque alla fine la fa morire, uccisa dal suo ultimo amante che, a differenza di lui così buono e riflessivo, è ovviamente stupidotto e pasticcione con le pistole, molto ricco e dello stesso fatuo mondo di lei, che è quello dei cantanti e degli attori.

 

Come diceva Dante? “Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è negli atti…”


  torna a 

 

        torna su