"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 9, dicembre 2004                                       


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

Cechov, Céline, Bulgakof, Benn: I medicamenta del dottor Scrittura

 


 

14. Milan Kundera 

 

 

 


“I medici, lo si sa, son tutti porcaccioni…”

(F. CÉLINE, Viaggio al fondo della notte)

E le infermiere?

Sempre nel Viaggio di Céline, nella clinica per alienati di Vigny-sur-Seine c’è Sophie, infermiera e slovacca. Per lei euforia da eros senza riserve: “gioia vivente” “armonia fisiologica”, “la sua sola presenza somigliava a un’audacia nella nostra casa scontrosa, paurosa e losca” (Ibid.)

In Kundera, qualcosa di analogo in uno dei racconti di Amori ridicoli:
 

“Cara Elisabet, io proprio non capisco. Ogi giorno lei fruga dentro ferite in suppurazione, buca deretani raggrinziti di vecchi, fa cliesteri, porta via padelle. Il destino le ha offerto un'invidiabile occasione per capire la natura corporea dell'uomo in tutta la sua metafisica vanità. Eppure la sua vitalità è incorreggibile. Nulla scuote la sua voglia ostinata di essere corpo e nient'altro che corpo. I suoi seni sono capaci di strofinarsi contro un uomo a cinque metri di distanza! Mi gira la testa, davanti alle eterne circonvoluzioni descritte dal suo instancabile sedere mentre cammina. Al diavolo, si allontani da me! I suoi seni hanno l'onnipresenza di Dio! E' già in ritardo di dieci minuti con le inezioni!”

 (M. KUNDERA, “Il Simposio”, in Amori ridicoli)
 

Peggio che nei Promessi Sposi, però, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, la Grande Storia, coi suoi cataclismi da sussidiario, irrompe – dyabolus ex-machina - nella vita del neurochirurgo Tomaš, allontanando ospedale e infermiere. 

Ora l’imbarazzo inevitabile è che è Tomaš a rinunciare prima alla chirurgia e poi del tutto alla medicina! Il perché resta qualcosa di opaco e inesplorabile per lo stesso autore, che contempla e commenta i fatti da scrittore settecentesco, senza truccare mai la sua voce da verbo di Dio. Kundera infatti sa che Tomaš è suo come don Chisciotte è di Cervantes: molto poco. 

 

Ecco i termini di una sorte essenziale e dunque enigmatica. 

Malgrado i russi a Praga e la Primavera annichilita, per Tomaš sarebbe stato del tutto semplice, perfino etico, tornare a fare il medico. E questo lo avremmo capito facilmente tutti. Ma, le voci monocordi del primario (“In fin dei conti, caro collega… lei non è né uno scrittore né un giornalista, e nemmeno un salvatore della nazione, bensì un medico e uno studioso…”) e d’un uomo del regime (“Ma il suo posto è al tavolo operatorio!…”), e poi lo sguardo di tutti gli altri che solo sperano di specchiare nel suo adeguarsi la loro ignavia, lo spingono a fare il contrario. 

 

Ridursi a essere un medico generico, alla routine senza dramma d’un’ambulatorio qualunque, era già defilarsi da ciò che aveva sempre sentito di essere:  “poteva dedicare a malapena cinque minuti a ciascun paziente; prescriveva aspirine, redigeva certificati di malattia per i datori di lavoro e inviava i malati a visite specialistiche. Non si considerava più un medico ma un impiegato.”

Solo nella chirurgia, invece, il destino: 
 

La chirurgia porta l’imperativo fondamentale della professione medica fino al limite estremo, dove l’umano tocca il divino. (…) Dio, si potrebbe dire, ha previsto l’omicidio, ma non la chirurgia. Non si immaginava che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di infilare una mano dentro un meccanismo inventato da lui, imballato con cura nella pelle, sigillato e chiuso agli occhi dell’uomo. Quando Tomaš appoggiò per la prima volta il bisturi sulla pelle di un uomo sotto anestesia e poi incise la pelle con gesto energico e l’aprì con un taglio netto e preciso (come fosse stata un tessuto inanimato, un cappotto, una gonna, una tenda), provò la breve ma intensa sensazione di compiere una profanazione. Ma era proprio quello ad attrarlo!…

(M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

 

Resta allora aperta sul vuoto la domanda:cosa può essere più essenziale di una vocazione? Ogni risposta, come quasi sempre, un tradimento.

 

 

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