Giovane
        abate fresco di seminario, Lorenzo da Ponte andò a vivere a Venezia.
        Mise incinta una donna sposata, Angioletta, con cui a lungo convisse, e
        quindi fu costretto a fuggire.
        Era
        bravo a giurare.
        Quando
        l’Inquisizione iniziò a occuparsi del giovane abate, una donna
        spifferò di averlo visto perfino in chiesa procacciarsi
        “compiacenze” da parte dell’Angiola che gli si sedeva debitamente
        accanto: “Essendo essa vicino all’amante poneva essa le mani nei
        bragoni e questi nelle scarselle delle cottole di lei”. 
        A
        sua volta, la cognata dell’Angioletta sempre agli inquisitori raccontò
        che ella “s’abbatté a vedere che detto prete poneva le mani sotto
        le cottole di lei e questa ne’ bragoni di lui”.
        “Che
        Dio mi fulmini mentre celebro messa se è vero!”
        Se
        non altro per mero principio aristotelico di autorità, i giudici, tra
        l’abate e le beghine, dovettero sul momento dar ragione all’abito
        talare.
        “Venezia,
        a quell’epoca, era un luogo di piacere internazionale, paragonabile
        alla Montecarlo dei nostri giorni, e bisogna aggiungere che l’abito
        ecclesiastico, allora, non implicava, neppure a Roma una osservanza
        rigorosa della morale. Peter Beckford (Familiar
        letter from Italy, London 1805), scrivendo da Roma una generazione
        più tardi, affermerà: “per quanto concerne gli abati, essi non sono
        solo intriganti essi stessi, ma, come dice Falstaff del suo spirito,
        suscitano l’intrigo negli altri. Essi sanno meravigliosamente far
        pervenire al destinatario un billet-doux,
        o presentarvi una ragazza di facili costumi”. (E. J. DENT, Il
        teatro di Mozart, Rusconi).