Too late… too late.
            
             
            Otto
            metri quadrati, nessun dialogo solo musica trinciata come ragnatela;
            una bambina bacia le croci e suona una spinetta scordata, il vento
            sibila trapassando le pareti; i colori sono urlati, aggressivi, il
            film è ossessionato, ossessionate. Montaggio schizoide: quattromila
            inquadrature per un’ora esatta di riprese, immagini talvolta quasi
            impercettibili, le spuntinature corrette fotogramma per fotogramma
            con le aniline e le lenti di ingrandimento: un lavoro “da
            impazzire. E forse impazzimmo davvero. Dicono che Godard si
            rifiutasse di credere che tutti i mie film provenissero dal 16 mm.
            Non si capacitava”. 
             
            Il
            Don Giovanni di Carmelo Bene, il più folle degli
            “hommage-delitto” siano mai stato perpetrati su 
            e a Barbey d’Aurevilly, l’Unico, el Desdichado,
            l’insuperato Maestro di fiammeggianti nefandezze, peccaminose
            santità (ma lo sapevate che soffocato da una crisi finanziaria,
            decise di mettersi nel commercio di oggetti liturgici? Per di più
            nei pressi di San Sulpice, la chiesa diabolica di Là-bas, il
            romanzo satanista di Huysmans. Praticamente come in Magrelli “e
            voglio un giorno farmi reliquia di me stesso”). 
            Questa
            lettura del Don Giovanni, “film di un cervello schizzato, opera di
            un poeta pazzo alla Nerval”, è una summa del Mondo e della sua
            Rappresentazione, bulino che incide a sangue il 
            Dongiovannismo e tutto il resto.
             
            Alla
            prima nessuno nessuno capì nulla. Presentato a Cannes nel 1970, e
            poi eccezionalmente anche in agosto, a Venezia, nei cinema si
            assistette a furibonde proteste: poltrone divelte, sedili
            incendiati, schermi distrutti…un fiasco epocale, da montarsi
            irreparabilmente la testa. 
            Solo
            due vecchine -guanti ricamati e veletta- sulla Promenade di Cannes
            azzardarono: “Maestro, c’è qualcosa di Barbey nel suo splendido
            film?”. Le uniche a riconoscere nella claustrofobia delle immagini
            l’ordito del “diabolica” più soffocante, Il Più bell’amore
            di Don Giovanni.
            Una
            bambina assiste all’incontro della mamma col suo amante; ne rimane
            sconvolta, si getta ai piedi del crocifisso, deve accorre persino il
            confessore, non c’è verso di tranquillizzarla. Solo alla fine,
            sciolta la tensione nelle lacrime, confesserà: ”Mamma, è stato
            una sera. Lui era nella grande poltrona vicina al caminetto, di
            fronte al divano. Vi rimase a lungo e quando si alzò io ebbi la
            disgrazia di andarmi subito a sedere nella poltrona lasciata vuota.
            Oh! Mamma!... fu come cadere nel fuoco: volevo alzarmi, non
            potevo… il cuore mancò! E sentii che… ecco: qui mamma!...
            sentii quello che avevo… era un figlio!”  
             
            La
            scena iniziale è concepita sull’onda del catalogo mozartiano, con
            l’intenzione di demolirne il senso: Don Giovanni è orami un
            vecchio, “uomo rovinato dalle bugie”, il catalogo è soltanto un
            ventaglio di falsità. I costumi - citazioni da Ingres, Cranach,
            Rembrandt - coprono solo il “davanti”, la “facciata” della
            donna; una sola attrice interpreta tutte e dodici le amanti; la
            stessa donna, palesemente la stessa, ora truccata da grassetta, ora
            da piccina… La sua schiena è nuda, 
            anche il Re ormai lo è, tutti lo sanno: 
            la falsità della seduzione è finalmente palpabile “a
            pelle”.
            L’inganno
            del catalogo può ora solo sbriciolarsi nello specchio infranto,
            “frammenti di volto frammenti di riso”.