"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007                                         


 n. 12 °*° William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 


 

 

24. Alfieri

 

 

 

 


«Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene, e perde l’originalità, se l’avea. E per questa ragione anche avea abbandonato fin dall’anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto più mi andava a sangue quell’autore (di cui però benissimo distingueva tutti i difetti), tanto più me ne volli astenere.»

(V. Alfieri, Vita, IV, 2)

 

 

Dunque Alfieri fa l’esperto, il cui massimo grado è poter dire «non l’ho letto e non mi piace» (frase troppo bella per essere di uno solo e infatti attribuita a molti: Philip Roth, Vanni Scheiwiller, Giorgio Manganelli, ecc.). L’autore che esordì come tragico scrivendo e riscrivendo un Antonio e Cleopatra (1774-75), che però ripudiò, sarà certo almeno in questo primo caso partito dalla stessa fonte plutarchiana di uno dei drammi per noi supremi di Shakespeare, ma certo tenendosi lontanissimo dai toni iperironici di una tragedia parodia della tragedia, tenendo anche il sangue e la morte all’interno di una sophisticated comedy che fa pensare ammirati più a Lubitsch e Billy Wilder che a senechiani coturni tonitruanti.

 

Quando scrive quel brano della sua Vita, Alfieri sta ricordando a poco più di cinquant’anni com’era a ventisette (1776): un ritratto dell’artista da giovane (Alfieri, si sa, fu un febbrile enfant prodige in ritardo) in cui appare studioso e prolifico, ma tenendosi ben stretto ai limiti della biblioteca del cànone tradizionale. Il fascino enorme del personaggio nascerà del resto proprio dal suo nuovo stridore, da quanto preromantica furia ritroverà e innesterà in testi fino allora studiati e imitati con sempre più flebile identificazione sentimentale (cfr. G. Macchia, Origini del romanticismo europeo, in Letteratura Italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano 1969).

 

Cosa sentiva di temere da Shakespeare, che lo colpiva tanto già a leggerlo in pessima traduzione francese? Perché quell’andargli «al sangue» era qualcosa da cui difendersi, mentre non valeva lo stesso, per esempio, per Seneca? Forse il fatto che in Shakespeare pareva – soprattutto allora! - che nessun argine venisse tenuto in piedi, e che il raccontabile e l’irraccontabile del mondo riesplodesse selvaggio e caotico, eccessivo di stridori e di barbarie?

Il barbaro Alfieri avrà cercato invece argini che ne contenessero e veicolassero la forza verso un optimum di espressione artistica che nel suo caso si darà solo nell’adesione a una forma in quanto tale accettata come la sola ammessa? Proprio perché barbaro, classico?

 

 

 

Nel 1776 Alfieri riprende lo studio del latino e legge le Odi di Orazio. Verseggia il Filippo. Continua a studiare i classici italiani. Deciso a «disfrancesarsi», in aprile parte per il suo primo «viaggio letterario» in Toscana (Vita, IV, 2). Soggiorna «sei o sette settimane» a Pisa, dove discute utilmente con «i più celebri professori» di scrittura tragica: Lorenzo Pignotti, Angelo Maria Fabroni, Giovanni Maria Lampredi, Antonio Maria Vannucchi. Sempre a Pisa stende la stesura dell’Antigone e mette in versi il Polinice (chi ha letto la Vita ricorderà la pagina molto bella dove racconta le varie fasi della sua scrittura). La Legge ad alcuni di «quei barbassori dell’Università» (Ibid.). Idea «ad un parto le due gemelle tragedie» Agamennone e Oreste. Traduce l’Ars poetica di Orazio e legge le tragedie di Seneca, apprezzando grandemente l’energia del verso giambico.


 

torna a  

 

 

torna su