SETTEMBRE 2007

NUMERO DOPPIO

 12 & 13

Amleto & altri Amleti

 

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To be or not to be

(Amleto, atto III, scena I)

To be, or not to be: that is the question:

Whether 'tis nobler in the mind to suffer

The slings and arrows of outrageous fortune,

Or to take arms against a sea of troubles,

And by opposing end them? To die: to sleep;

No more; and by a sleep to say we end

The heart-ache and the thousand natural shocks

That flesh is heir to, 'tis a consummation

Devoutly to be wish'd. To die, to sleep;

To sleep: perchance to dream: ay, there's the rub;

For in that sleep of death what dreams may come

When we have shuffled off this mortal coil,

Must give us pause: there's the respect

That makes calamity of so long life;

For who would bear the whips and scorns of time,

The oppressor's wrong, the proud man's contumely,

The pangs of despised love, the law's delay,

The insolence of office and the spurns

That patient merit of the unworthy takes,

When he himself might his quietus make

With a bare bodkin? who would fardels bear,

To grunt and sweat under a weary life,

But that the dread of something after death,

The undiscover'd country from whose bourn

No traveller returns, puzzles the will

And makes us rather bear those ills we have

Than fly to others that we know not of?

Thus conscience does make cowards of us all;

And thus the native hue of resolution

Is sicklied o'er with the pale cast of thought,

And enterprises of great pith and moment

With this regard their currents turn awry,

And lose the name of action.

 

 


Essere o non essere, questo è il problema: s’egli sia più nobile soffrire nell’animo le frombole e i dardi dell’oltraggiosa Fortuna, o prender armi contro un mare di guai, e contrastandoli por fine ad essi. Morire, dormire… nient’altro; e con un sonno dire che noi poniam fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne; è un epilogo da desiderarsi devotamente, morire e dormire! Dormire, forse sognare, sì, lì é l’intoppo; perché in quel sonno della morte quali sogni possano venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo terreno imbroglio, deve farci riflettere; questa è al considerazione che dà alla sventura una sì lunga vita; perché chi sopporterebbe le sferzate e gl’insulti del mondo, l’ingiustizia dell’oppressore, la contumelia dell’uomo orgoglioso, gli spasimi dell’amore disprezzato, l’indugio delle leggi, l’insolenza di chi è investito d’una carica, e gli scherni che il paziente merito riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe fare la sua quietanza con un semplice pugnale? chi vorrebbe portar fardelli, gemendo e sudando sotto una gravosa vita, se non che il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome di azione…

 

(Raffaello Piccoli, Sansoni, Firenze 1964)

Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro  mare di triboli e combattendo disperderli. Morire: dormire; nulla più: - e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte.

Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte – quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale – ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce dell’amore respinto, gli indugi della legge, l’oltracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte – la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore – a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’altri che non conosciamo?

Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso: e dell’azione perdono anche il nome.

(Cesare Vico Ludovici, Einaudi, Torino 1983)


 

Essere… o non essere. E’ il problema.

Se sia meglio per l’anima soffrire

Oltraggi di fortuna, sassi e dardi,

o prender l’armi contro questi guai

e opporvisi e distruggerli. Morire,

dormire… nulla più. E dirsi così

con un sonno che noi mettiamo fine

al crepacuore ed alle mille ingiurie

naturali, retaggio della carne!

Questa è la consunzione da invocare

Devotamente. Morire, dormire;

dormire, sognar forse… Forse; e qui

è l’incaglio: che sogni sopravvengano

dopo che ci si strappa dal tumulto

della vita mortale, ecco il riguardo

che ci arresta e che induce la sciagura

a durar tanto anch’essa. E chi vorrebbe

sopportare i malanni e le frustate

dei tempi, l’oppressione dei tiranni,

le contumelie dell’orgoglio, e pungoli

d’amor sprezzato e rèmore di leggi,

arroganza dall’alto e derisione

degl’ingegni sul merito paziente,

chi lo potrebbe mai se uno può darsi

quietanza col filo di un pugnale?

Chi vorrebbe sudare e bestemmiare

Spossato, sotto il peso della vita,

se non fosse l’angoscia del paese

dopo la morte, da cui mai nessuno

è tornato, a confonderci il volere

ed a farci indurire ai mali ignoti?

La coscienza, così, fa tutti vili,

così il colore della decisione

al riflesso del dubbio si corrompe

e le imprese più alte e che più contano

si disviano, perdono anche il nome

dell’azione.

 

 

 

(Eugenio Montale, Mondadori, Milano 1988)

 

Essere, o non essere - ecco il punto.
Se è meglio sopportare, e tener dentro,
Frecciate e sassi d'un destino avverso,
O ribellarsi alla marea di guai
Facendola finita. Morire, dormire.
Nient'altro: un sonno e dire basta
Al male in cuore e agli altri mille acciacchi 
Che la carne comporta. E' da augurarsela,
Una fine così, sinceramente.
Morire, dormire. Dormire e, forse,
Sognare. Eh già, qui sta l'inghippo:
Quali sogni ci possan visitare
In quel sonno di morte, messo via
Questo guscio mortale, ci costringe
A non prender partito: ecco il ritegno
Che fa durare tanto la sciagura.
Perché reggere ai danni ed alle beffe
Della vita - ai soprusi d'un tiranno,
Agli insulti d'un becero, ai patemi
D'un'amore spregiato, alle lungaggini
Della legge, alla spocchia dei burocrati,
E ai calci che chi arriva a far qualcosa
Sempre riceve da chi è un buono a nulla -
Quando uno può da sé darsi quietanza
Con un semplice stocco? Perché mai
Piegar la schiena, grugnire e sudare
Sotto il noioso logorìo degli anni,
Se non fosse il terrore di qualcosa
Dopo la morte - il regno sconosciuto
Dai cui confini mai nessuno torna -
Che ci confonde e ci fa sopportare 
Questi mali che abbiamo qui piuttosto
Di volarsene ad altri sconosciuti?
La coscienza, così, fa tutti vili,
E così un goccio di pensiero sbianca
Il volto che era in prima di fermezza,
E le imprese più alte e più importanti
Volgono indietro il loro corso e pèrdono,
Riguardo a questo, il titolo d'azione.

(Fiornando Gabbrielli, per il compagno segreto, Trieste 2007)


 

essere o non essere, ecco la questione.

Se sia più degno nell’anima soffrire

Le frecce e le sassate dell’oltraggiosa fortuna,

oppure armarsi contro un oceano di guai

e con l’opporsi stroncarli. Morire… dormire,

niente più. E col dormire, dirci che annientiamo

il dolore e gli altri mille accidenti naturali

che sono il retaggio della carne: è una consumazione

da invocare con la preghiera. Morire, dormire.

Dormire… forse, sognare: sì, ecco l’intoppo;

perché in questo sonno di morte quali sogni potremo avere?

Una volta liberati di questa spoglia mortale,

tali da darci tregua… con questo ragionamento

più la vita sarà lunga, più sarà infelice.

Perché infatti sopportare le fruste e le ingiurie del tempo,

l’oppressione ingiusta, le offese dell’orgoglio,

l’agonia di quando si soffrire per amore, le more della legge,

l’insolenza di chi sta in alto, e il disprezzo

che il paziente merito prova per mano degli indegni,

quando uno con le proprie mani potrebbe darsi la quietanza

grazie a un pugnale affilato? Perché portare fardelli

e grugnire e sudare sotto le fatiche della vita?

Ma c’è il terrore di qualcosa dopo la morte,

dell’inesplorato paese dai cui confini

nessun viaggiatore ritorna. Questo paralizza la volontà

e ci fa affrontare i malanni familiari

piuttosto che fuggire verso altri che ci sono ignoti.

Ed è così che il colore naturale della decisione

è inquinato dal malsano incarnato del pensiero

e anche imprese di gran piglio e importanza

per questa ragione si dirottano dal loro corso

e pèrdono il nome di azione.

 

 

(Masolino d’Amico, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005)

 

Essere o non essere – questa è la domanda.

Se è più nobile per la mente sopportare

Le sassate e le frecce dell’oltraggiosa fortuna

O prendere le armi contro un mare di guai

E, combattendo, finirli. Morire, dormire –

Nient’altro – e con un sonno dire che poniamo

Fine al male del cuore e ai mille

Travagli maturali di cui la carne è erede.

Questa è consumazione da desiderare devotamente.

Morire, dormire – dormire, forse sognare.

Ah, qui è l’intoppo. Perché in quel sonno

Di morte quali sogni possano venire quando ci siamo liberati

Di questo grovigli mortal, è cosa

Che deve farci meditare. E’ questo il pensiero

Che dà alla sofferenza una vita così lunga.

Chi sopporterebbe la frusta e l’ingiuria del tempo,

I torti dell’oppressore, le contumelie

Del superbo, i dolori dell’amore disprezzato,

I ritardi della giustizia, l’insolenza del potere

E il disprezzo che il merito paziente riceve

Dagli indegni, quando lui steso potrebbe

Darsi quietanza con un nudo pugnale?

Chi porterebbe fardelli, grugnendo

E sudando sotto il peso della vita, se non fosse

Che la paura di qualcosa dopo la morte,

La terra inesplorata dai cui confini

Non torna il viaggiatore, paralizza la volontà

E ci fa sopportare i mali che abbiamo

Piuttosto che fuggire verso quelli

Che non conosciamo? Così la coscienza

Ci rende tutti codardi, e così

La tinta naturale della risolutezza

E’ resa livida dalla pallida impronta

Del pensiero, e imprese di grande

Portata e momento mutano per questo

Il loro corso e perdono il nome

Di azione.

 

(Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano, 2006)


 

Essere o non essere? Questo è il punto:

è più degno che l’animo sopporti

sassi e frecce con cui infama fortuna,

o, armati contro un mare di guai,

opporsi e finirla? Morire – dormire,

Nient’altro, e dire basta con quel sonno

allo scempio del cuore e ai mille strazi

inscritti nella carne: è un finirsi

da implorare. Morire, dormire;

dormire – sognare? – oh, quest’è l’incaglio:

che sogno verrà nel sonno da morti,

quando saremo disciolti dal nodo

letale? - Qui ci si ferma: è il dubbio

che tanto allunga le nostre disgrazie.

Chi si rassegna alla frusta e agli scorni

del tempo, ai torti dei tiranni, all’onta

del superbo, all’angoscia dell’amore

schifato, le lenturie della legge,

l’insolenza degli uffici, gli scherni

dei mediocri al merito tenace,

quando da solo può saldare il conto

un facile pugnale? Chi acconsente

a sbavare e sudare sotto il peso

della VITA, se non per il terrore

di chissà che dopo la morte: terra

mai scoperta, senza nessun ritorno,

che ci annulla il volere e aggrappa ai mali

che ora abbiamo, per non volare ad altri

di cui ignoriamo tutto? Ecco come

il sapere ci fa tutti vigliacchi:

il colore nascente della scelta

sotto l’ombra smorta del pensïero

si fa viola, e grandi imprese per questo

sguardo si svìano dal loro corso

e perdono il nome di azione.

 

(fc, per il compagno segreto, Trieste 2007)

 

 

Essere o non essere, è questo che mi chiedo:

se è più grande l’animo che sopporta

i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata,

o quello che si arma contro un mare di guai

e opponendosi li annienta. Morire… dormire,

null’altro. E con quel sonno mettere fine

allo strazio del cuore e ai mille traumi

che la carne eredita: è un consummatum

da invocare a mani giunte. Morire, dormire, -

dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio:

perché nel sonno della morte quali sogni

possono venire, quando ci siamo districati

da questo groviglio funesto, è la domanda

che ci ferma – ed è questo il dubbio

che dà una vita così lunga alla nostra sciagura.

Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo,

il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo,

le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge,

l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni

che il merito paziente riceve dagli indegni,

quando da sé, potrebbe darsi quietanza

con un semplice colpo di punta? Chi accetterebbe

di accollarsi quelle some, e grugnire

e sudare sotto il peso della vita,

se non fosse il terrore di qualcosa

dopo la morte, la terra sconosciuta

da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci

la volontà, a farci preferire i mali che abbiamo

ad altri di cui non sappiamo niente? Così

la coscienza ci rende codardi, tutti

e così il colore naturale della risolutezza

s’illividisce all’ombra pallida del pensiero

e imprese di gran rilievo e momento

per questo si sviano dal loro corso

e perdono il nome di azioni.

 

(Nemi D’Agostino, Garzanti, Milano, 1993)

 


Essere o non essere, qui sta il problema: è più degno patire gli strali, i colpi di balestra di una fortuna oltraggiosa, o prendere armi contro un mare di affanni, e contrastandoli por fine a tutto? Morire, dormire, non altro, e con il sonno dire che si è messo fine alle fitte del cuore, a ogni infermità naturale alla carne: grazia da chiedere devotamente. Morire, dormire. Dormire? sognare forse. Ecco il punto: perché nel sonno di morte quali sogni intervengano a noi sciolti da questo viluppo, è pensiero che deve arrestarci. Ecco il dubbio che tiene in vita a così tarda età gli infelici, perché chi vorrebbe subire la sferza e gli sputi del tempo, i torti dell’oppressore, contumelie dell’uomo arrogante, pene per l’amore disprezzato, remore in luogo di legge, gli uffici e la loro insolenza, e gli oltraggi che il merito paziente ha inflitti dalla iniquità, quando egli stesso nient’altro che con un pugnale, potrebbe far sua la pace? Chi vorrebbe portare some, gemere, smaniare sotto una vita opprimente, se lo sgomento di qualcosa dopo la morte, l’inesplorato dei continenti dalla cui frontiera non c’è viaggiatore che torni, non intrigasse la volontà, facendo preferire il peso dei mali presenti al volo verso altri di cui non si sa? E’ la coscienza che ci fa vili, noi quanti siamo. Così la tinta nativa della risoluzione, si stempera sulla ficca paletta del pensiero, imprese di grande flusso e momento insabbiano il loro corso e perdono il nome di azione.

(Luigi Squarzina, Newton Compton, Roma, 2003)

 

 

Essere o non essere, questa è la domanda:

se sia più nobile per la mente sopportare

i sassi e le frecce della oltraggiosa fortuna

o prendere le armi contro un mare di affanni

e contrastandoli, finirli. Morire, dormire…

nient’altro, e con un sonno dire fine

alla stretta del cuore e ai mille tumulti naturali

che eredita la carne: è una consumazione

da desiderare devotamente. Morire, dormire.

Dormire, forse sognare. Ah, qui è l’intoppo.

Perché, in quel sonno di morte, quali sogni

Possano venire, dopo che ci siamo cavati

Di dosso questo groviglio mortale,

deve farci esitare. Ecco il motivo

che dà alla sventura così lunga vita.

Perché chi sopporterebbe le frustate e gli insulti

Del tempo, il torto degli oppressori,

l’offesa degli arroganti, gli spasimi

dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,

l’insolenza delle cariche ufficiali, e gli insulti

che il merito paziente riceve dagli indegni,

quando da solo potrebbe darsi quietanza

con un semplice stilo? Chi vorrebbe portare pesi,

imprecare e sudare sotto una faticosa vita,

se non fosse che il terrore di qualcosa

dopo la morte, il paese inesplorato

dal cui confine nessun viaggiatore ritorna,

sconcerta la volontà e ci fa sopportare

i mali che abbiamo piuttosto che volare

ad altri che non conosciamo?

Così la coscienza ci rende codardi tutti,

e così il colore naturale della risolutezza

è contagiato dalla pallida cera del pensiero,

e imprese di grande altezza e momento,

per questa causa, deviano dal loro corso

e perdono il nome di azione.

 

(Alessandro Serpieri, Marsilio, Venezia 2003)


 

 

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