"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 3, marzo 2003


 


 

 

6. Metamorfosi di sé, nel mare, nel fuoco, dello scrivere

Trasformazione grottescamente mistica è quella che riduce un condannato alla scrittura della sua pena, altrimenti sconosciuta e solo così rivelata, nella sua stessa carne in Nella colonia penale del 1914:

 

Come tutti noi si coglieva l’espressione della trasfigurazione in quel volto martoriato, e come si protendevano le nostre guance nel riverbero di quella giustizia finalmente raggiunta e già quasi svanita! Che tempi, camerata!

 

Posto che sia vera (chi racconta è un ufficiale nostalgico dell’atroce pratica), di tutte le metamorfosi kafkiane, questa è la sola perfetta. Gregor Samsa resta infatti quasi del tutto un commesso viaggiatore anche se in una forma alla quale si adegua forse come ogni uomo a una malattia; la scimmia dell’Accademia racconta la sua vocazione umana come l’unico scampo a un destino ancora più gramo, non essendo più possibile la “libertà”. Almeno per un attimo estatico, invece, il condannato della Colonia Penale, coincide con la stessa sentenza che lo condanna, in un indicibile momento di chiarezza.

La trasformazione del corpo umano in scrittura è l’aleph a cui smesso Kafka sente di essere chiamato. L’annullamento mistico nella scrittura come la massima felicità concessa a uno scrittore: questa sensazione Kafka la provò la notte in cui scrisse La condanna: “Sforzo spaventevole e gioia di veder svolgersi davanti a me la narrazione e di procedere navigando in un mare. Più volte portai questa notte il mio peso sulle spalle. Tutto si può osare, per tutti, per le più lontane trovate è pronto un gran fuoco in cui muoiono e risorgono” (Diari, 23 settembre 1912).

Lo scrittore che più di ogni altro riuscì in questo era per lui Flaubert, ideale letterario e umano, monaco inflessibile d’una scrittura definitiva. Flaubert è per Kafka la prova sufficiente che o si scrive o ci si sposa.

Anche nella lettura ad alta voce Kafka cercava lo stesso annullante compimento: “desidero di accostarmi alle belle opere che leggo talmente da fondermi con esse…” (Diari, 4 gennaio 1912).

Certamente così agì su di lui, qualche anno dopo, Amleto:

“Max, ho visto una rappresentazione dell’Amleto o, meglio, ho ascoltato Bassermann. Per interi quarti d’ora avevo, ti giuro, il viso di un altro uomo, ogni tanto dovevo distogliere gli occhi dalla scena e guardare un palco vuoto per riprendermi” (cartolina a M. Brod, 9 dicembre 1910).