"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8 luglio 2004

 

Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi


 

 

 


6.  Gioie animali, gioie extra-umane 

 

 

 

“Ora lento e placidissimo

Il bel canto in giù discende;

Or con volo rapidissimo, 

Gorgheggiando, in alto ascende.” 

(L. PIGNOTTI, Il rosignolo e il cuculo,

dalla Crestomazia Italiana, Poesia)

“Io credo che nell’ordine naturale l’uomo possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente e come le bestie, cioè senza grandi né singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata (...) Ma non già credo che noi siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il vòto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali, del che non dovevamo neppure sospettare: “Tout homme qui pense est un être cor-rompu” dice Rousseau, e noi siamo già tali” (Zib. 56)

 

Queste gioie mediane, saranno concesse - è ovvio - fin quando il Fanciullo-Natura non ne combinerà una delle sue, il che del resto in anticipo tutti si sa (“Quale un fanciullo, con assidua cura, / di fogliolini e di fuscelli, in forma / o di tempio o di torre o di palazzo, /... il suo capriccio adempie, e senza posa / distruggendo e formando si trastulla...”, così nella Palinodia, che pari pari riprende il frammento 52 di Eraclito: “L’aìon è un fanciullo che si trastulla (paizòn) e gioca col tavoliere: il regno di un fanciullo.”)

 

Poiché gli animali, “perfettissimi ciasceduno in se stesso” (La scommessa di Prometeo) hanno il dono semidivino di non curarsi dell’Inevitabile, chiaro il perché essi assurgano in tutto Leopardi a emblema della perfezione possibile in un mondo in cui malattia e mortalità sono già apparecchiate per tutti.

Solo l’uomo rimane “animale non stabilizzato” (Nietzsche) in un creato, per il resto, e malgrado i morbi perenni e i massacri quotidiani, miracolosamente capace di understatement. - Di tanta psicolabilità, prova lampante è la pressoché totale concentrazione di lai, gnagnere, paturnie e suicidi nella specie più implume: e infatti, fuori degli uomini, “nessuno si abbrucia a bello studio fuorché la fenice, che” del resto, come si canta nel Così fan tutte con quartina metastasiana, “non si trova” (Ibid.).

 

Ma, anche lì dove si riuscisse, seguendo Plotino e non Tristano, a fare propria l’animalesca riluttanza al suicidio, e perfino a schivare il più possibile l’arrogante e ahimè connaturata tendenza ad annoiarci di tutto, la morte resterà per noi sempre un melodramma urlato, dato che “laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo” (Dialogo di Porfirio e di Plotino)

Ma forse, qui, esagerando.

 


 

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