“(Leopardi)
        sta in alto, nel privilegio; il suo spirito può 
        porsi
        a guardia della più integra figura umana 
        perché
        gli è evitato ogni destino d’abiezione” 
        A.
        ZANZOTTO, Fantasie di
        avvicinamento)
         
        “La
        demenza, dunque, è la madre della scrittura 
        e
        della lettura; ma non ne è la soluzione” 
        (G.
        MANGANELLI, Discorso dell’Ombra
        e dello Stemma)
         
        
        
        Solo
        chi non ne ha la minima pratica, può pensare che si possa scrivere per
        muse povere e tristi.
         
        Foss’anche
        il lamento di Didone, l’euforia indispensabile per scrivere e cantare
        è del resto una di quelle cose che si conosce giusto per
        prova... - Quanto a Leopardi, gli stessi titoli essenziali, da canterino (Canti)
        e attor comico (Operette), dovrebbero pur dire qualcosa.
         
        
        Lasciato
        a sé, invece, il dolore precipita in se stesso. 
        O,
        con lingua più matematicamente adeguata: “nella sofferenza non vi è
        solo disequazione tra il tipo di esperienza e la comunicazione, ma vi è
        una recessione della comunicazione stessa. Il rischio non è il
        fraintendimento, ma il muto patire che strettamente si imparenta alla
        morte” (S.
        NATOLI, L’esperienza del dolore).
         
        All’opposto,
        l’euforia del Canto salta fuori dalla sofferenza come Pinocchio dal
        ciocco di legno! - Ecco allora anche il “felice delirio” di
        Leopardi, la “contraddizione tra il messaggio e l’«euforia» del
        gesto che lo reggeva”; “tra il suo infinito parlar di morte e il suo
        roccioso non morire” (A. ZANZOTTO, Fantasie
        di avvicinamento)!
         
        Tutto,
        per essere canto, deve nascere da una prima felicità essenziale: l’“immaginazione”
        e la “sensibilità malinconica” hanno “forza”, e il “respiro
        dell’anima” non è faticoso solo se esiste “un’aura di
        prosperità”  e un “vigor
        d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume
        d’allegrezza” (Zib.
        136).
        
        Si
        può dire lo stesso anche scrivendo che si è tutti nipotini di Petrarca:
        è Petrarca che, per obbedienza all’euforia
        della forma poetica, fa della sua stessa piaga un campo per giochi
        infiniti: il luogo dove, “attraverso la pura verbalità, la sua
        lacerazione diventa gioia.” (G.
        MANGANELLI, La penombra mentale).
         
        Severino
        racconta lo stesso salto fuori dal dolore parlando della Ginestra:
        “il deserto è cantato dal fiore del deserto, ed è per questo suo
        canto che esso è contento. Alla ginestra non basta il deserto; basta il
        suo cantarlo” (Il
        Nulla e la Poesia).
         
        Infatti.
        E tanto più
        nelle Operette morali,
        “ironia e parodia smorzano la solennità del domandare irridendo la
        vanità delle risposte, l’inconsistenza dei ragionamenti, la retorica
        che veste il nulla.(...). Leopardi - non bisogna dimenticarlo - è
        scrittore che diverte. E corrode.” (A.
        PRETE e S. NATOLI, Dialogo su
        Leopardi).
        
        Ecco
        allora, nel nostro “libro
        più cordiale”,
        un emblema dell’essenziale: “solitaria, catastrofica e totalmente
        felice, la letteratura ride.” (G.
        MANGANELLI, Discorso dell’Ombra
        e dello Stemma).
         
        
        
          
          (Per questo articolo, cascò a fagiolo una lettura de I Ching.
          
         
        
          
          Dice infatti la linea mutante numero 3 dell’esagramma del Fuoco: 
          
         
        
          
          “Il vecchio dovrebbe battere sulla ciotola e cantare. 
          
         
        
          
          Invece si preoccupa della morte. Infausto”. Appunto)