"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

84. A. W. Schlegel

 

 


 

  

Dal 1799 al 1801 A. W. Schlegel (1767-1845) pubblicò presso l’editore Unger la traduzione in versi giambici di diciassette drammi di Shakespeare: «lavoro insieme filologico e creativo, scientifico e poetico, che costituisce non solo la sua opera fondamentale in Germania, ma la realizzazione più notevole di tutto il Romanticismo tedesco» (M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992). Potendo «la poesia essere compresa solo attraverso la poesia» (Lezioni di Letteratura drammatica, 1808), si trattò di un’opera necessaria, non solo per il teatro tedesco ma per l’idea che Schlegel aveva della critica: come qualcosa che mai dovrebbe rimanere diviso dalla creazione poetica.

 

Nel 1796 esce il Wilhelm Meister di Goethe: A. W. Schlegel pubblica, sulla rivista di Schiller, Die Horen Etwas über William Shakespeare bei Gelegenheit Wilhelm Meister: non ha lo stile incalzante e vivace di un Tieck, è piuttosto un saggio di pacata ma ferma divulgazione, diretto a dimostrare la necessità di qualcosa che allora nessuno avrebbe creduto e che avrebbe trovato molti oppositori: la necessità che la traduzione di Shakespeare fosse in versi.

 

Shakespeare è un poeta, dunque pieno di «innumerevoli indescrivibili bellezze non racchiuse nelle parole» che in prosa svaporano del tutto. Per non perderle del tutto, «vale la pena di tentare» (A. W: Schlegel, Alcune note su William Shakespeare, in occasione dell’uscita del Wilhelm Meister, 1796, in: M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992).

 

 

Shakespeare era già stato tradotto in prosa da Wieland, e poi con più precisione da Eschenburg. In queste versioni era stato portato in scena. Tutto questo perché aveva avuto successo il « pregiudizio di Lessing contro l’uso della metrica nel dramma», idea che si era radicata e che aveva convinto anche Schiller e Goethe (M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992). Motivo non meno determinante, gli attori non possedevano l’arte della recitazione in versi: «Solo a Weimar si sapeva recitare in versi. Altrove gli attori erano incapaci.» (Ibid.).

 

La conversione alla scrittura teatrale in versi avvenne all’inizio con Schiller che scrisse il Wallenstein (1799): nel 1797 Schiller scrive a Goethe una lettera in cui spiega perché sposa la «nuova giurisdizione» del ritmo. Goethe si convince a sua volta: «Tutte le opere drammatiche dovrebbero essere ritmiche e allora si vedrebbe chiaramente chi è capace e chi no» (J. W: Goethe, Scritti sull’arte e la letteratura, Torino 1992).

 

Ancora adesso in Germania Shakespeare è il ritmo di Schlegel.


 

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