"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

87. Montaigne (e Tasso)

 

 


 

 

I Saggi di Montaigne, tradotti in inglese da John Florio, molte sentenze seminarono tra i geniali elisabettiani. Sulla versione del Florio, che lasciò in Shakespeare «tracce cospicue (…) anche in Hamlet» (G. Baldini, Manualetto shakespeariano, Torino 1967), Mario Praz ha scritto: «La sua versione inglese di Montaigne, che è la sua sola opera di letteratura vera e propria, ha avuto un enorme influsso sul dramma ed è stesa in una lingua ricca e vivace; merita lode come opera originale, ma, come versione di Montaigne, è un completo travisamento. Ché il Florio era un retore, e s’era messo in testa di migliorare lo schietto e diretto stile del pensatore francese con bellurie e ribòboli in cui egli faceva consistere tutta la nobiltà del linguaggio» (M. Praz, Giovanni Florio, in: Bellezza e bizzarria, Milano 2003).

 

 

Da questo filum arrivarono fino ad Amleto i germi malinconiosi di uno dei poeti nostri supremi. Nell’Apologia di Raymond de Sebonde (Saggi, libro II, cap. XII) leggiamo a proposito del Tasso ossimori che riconosceremo perfettamente adatti al principe:

 

«…dalle rare e vive emozioni delle nostre anime le pazzie più straordinarie e più sconcertanti; non c’è che un mezzo giro di bischero per passare dall’una all’altra. Nelle azioni degli uomini insensati noi vediamo quanto propriamente la follia si conformi con le più gagliarde opere della nostra anima. Chi sa quanto sia impercettibile la vicinanza fra la follia e le sublimi elevazioni di uno spirito libero e le manifestazioni di una virtù somma e straordinaria? Platone considera i melanconici più disposti ed eccellenti nella scienza eppure non ci sono altri che abbiano tanta tendenza alla follia. Infiniti spiriti sono travolti dalla loro propria forza e pieghevolezza. Che cosa non ha avuto or ora, per la sua propria vivacità, uno dei più saldi ingegnosi e più conformi allo spirito dell’antica e pura poesia, che vi sia stato da lungo tempo fra i Poeti italiani? Non lo deve egli a quella sua vivacità assassina? Chi l’ha accecato da quella lucidità? da quella precisa ed acuta intelligenza della sua ragione chi l’ha ridotto senza ragione? dalla curiosa e laboriosa indagine delle scienze chi l’ha condotto alla follia? da quella rara attitudine agli esercizi dell’anima chi l’ha ridotto senza esercizi e senza anima? Io ebbi anche più rispetto e compassione al vederlo a Ferrara in uno stato così pietoso, sopravvivendo a se stesso, senza conoscenza di sé e delle sue opere, le quali, senza il suo intervento, e tuttavia sotto i suoi occhi, sono state pubblicate non corrette e informi.»

(M. de Montaigne, Apologia di Raimondo Sebond in Saggi, vol. II, Milano 1986)


 

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