"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 


n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

46.  Melanconia

 


 

«Ogni trovata è persa»

(C. Bene e G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano 1998)

 

 

Avrà certo ragione l’impenetrabile principessa di Clèves a scrivere ad Amleto «voi con la vostra spada retorica ed onesta, le vostre argomentazioni avvocatesche e teologiche» (G. Manganelli, Un amore impossibile, in Agli dèi ulteriori, Torino 1972), e certo Amleto sarà anche stato un cacadubbî asfissiante, ma cosa pensare di una cultura universitaria – e dunque teologica – che aveva ramificato i suoi sillogismi secolari fino al «sottobosco spinoso e impenetrabile», al causidico caos della «religione meccanica» (Erasmo, Dedica dell’Enchiridion) di scolastici machiavelliani in spaesata fibrillazione tra aureo rinascimento e torva controriforma?

 

«In lui non si contorce il dubbio, chi mai ha inventato questa scemenza? Si palesa invece il dibattito… (…) Il dubbio, semmai, non è altro che lo scrupolo procedurale (di timbro anglosassone): e lo scrupolo procedurale fa parte delle acquisizioni etiche dello spirito umano» (C. E. Gadda, I viaggi la morte). – Che è quanto già sosteneva Hegel, ma senza cogliere il salto morale riconosciuto da Gadda: «Amleto è, sì, indeciso, ma dubita non su ciò che deve compiere, ma sul come compierlo»(G. W. F. Hegel, Estetica). Difficile però sostenere che una bazzecola come l’Essere o non essere articoli uno scrupolo sulle procedure del da farsi e non sull’essenza stessa di quel dover essere. L’indecisione sarà piuttosto qualcosa di ineliminabile da Amleto anche se non fosse quello che è, una creatura che vive e pensa intensamente, qualcosa che sta all’uomo come l’ombra a un corpo colpito dalla luce: «cooriginariamente certa quale possibilità costante dell’Esserci» (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955).

Il problema sarà: dove fermarsi per agire, per farsi essere nella «molteplicità aggrovigliata dei “fenomeni” che vanno sotto il nome di fenomeno» (Ibid.)?... Trovare, se non un vero fondamento, un limite oltre la scrupolosa ricerca di ambiguità, la quale – dice bene l’esperto - «conduce rapidamente ad allucinazioni» (W. Empson, Sette tipi di ambiguità). Amleto dalla tarda vendetta  nella sua via crucis sperimenta tutte le stazioni del «meditare troppo sull’azione» (Atto IV, sc. 4). Si sospetta, di fronte a certi doveri esorbitanti (uccidere!), che ogni meditare sia troppo se lo scopo è davvero l’acefala efficacia dell’azione; che sarebbe un dono davvero grato quello dell’ «avventatezza» che meglio «ci serve / Quando le nostre profonde trame falliscono» (Atto V, sc. 2).

 

Tutti vogliono che facciamo qualcosa: pare che siamo stati messi al mondo già per quello: «La società non sa che farsene dei nostri pensieri» (M. de Montaigne, Saggi, vol. I, Milano1986), e anche questo è un pensiero che trovi uguale in Hegel, però il pensiero di Montaigne, continua: «ma quello che resta…».

 

 

Resteremo soli – eroi per caso? – con «domande rivolte alle domande» (C. Bene, Opere, Milano 2002).

 

«Ogni pensiero è disperante, fatuo, sterile, e quindi solo una sospensione del pensiero nell’agire sconsiderato avrebbe fatto di lui un oggetto insensibile alla nevrosi fastidiosa della coscienza in gramaglie. Un disagio dell’esserci è vivibile, è una convalescenza dell’infinito; ma il disgusto del non esserci, per quanto impensabile, è orrendo. Secoli e secoli di dottrine, a che? Ma certamente a persuadere quest’io, sulle prime intrattabile, arrogante, non a dimettersi completamente, a scomparire di scena, ma ad esser più educato, più corretto, un po’ meno intransigente, tutto qui. Domani altre correnti del pensiero prostituiranno tutto questo sforzo, e quest’io, organizzato altro teatrino, darà ancora spettacolo centrale del suo fasto idiota.»

(C. Bene, Opere, Milano 2002).


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