Scrivere
          per Kafka fu sempre una “professione”, la sua vera. Scrivere è il
          suo “lavoro”: e un requisito della sua felicità fu sempre trovare
          il modo di subordinargli tutto il resto della vita. Questa serena
          certezza restò sempre tale, anche se quel lavoro non poteva neppure
          nella più felice delle ipotesi portargli un guadagno. 
           
          Ma
          questo non cambiò mai ai suoi occhi il fatto essenziale che scrivere
          fosse il suo “lavoro”: anche se era qualcosa saputo da pochi,
          anche se si svolgeva semiclandestinamente, anche se agli occhi del
          mondo egli restò uno scrittore inesistente. Le lettere alla fidanzata
          Felice dicono molto di questa consapevolezza professionale di uno
          scrittore che rimase per tutta la vita quasi del tutto inedito.
           
          Allo
          stesso tempo, Kafka fu un ottimo impiegato che svolse i suoi compiti
          sempre con scrupolo e senza risparmiarsi. Sapeva farsi voler bene e
          rispettare ed ebbe sempre  l’apprezzamento
          dei suoi superiori.
          Eppure
          letteratura e lavoro d’ufficio sono due vampiri che si succhiano il
          sangue a vicenda. Dal diario del 28 marzo 1911:
           
          
            
              “…faccio
              l’impiegato di un istituto di assicurazioni sociali. Ora queste
              due professioni non si possono conciliare né ammettono una
              felicità comune. La più piccola felicità nell’una diventa una
              grande infelicità nell’altra. Se una sera scrivo qualcosa di
              buono, il giorno dopo in ufficio sto sulle spine e non riesco a
              combinare niente. Questo via vai va sempre peggiorando. In ufficio
              adempio esteriormente i miei doveri, non invece i miei doveri
              interiori, e ogni dovere interiore non adempiuto diventa
              un’infelicità che non s’allontana da me.”