"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

70. Voltaire

 

 


 

«Esistono già due volumi pubblicati di questo Shakespear che si potrebbero scambiare per delle opere della fiera, fatte duecento anni fa. Seguiranno altri cinque volumi. Nutrite un odio adeguatamente forte contro questo sfrontato imbecille?»

(Voltaire, Lettera a Charles Augustin Feriol, conte d’Argental, 19 luglio 1776)

 

 

Nella stessa lettera Voltaire non può che dolersi di se stesso: «e per colmo di disgrazia e di orrore sono stato io che un tempo ho parlato per primo di questo Shakespear; sono io che un tempo ho mostrato ai Francesi alcune perle che avevo trovato nel suo enorme letamaio» (Ibid.).

E’ il primo che lo cita in Francia, intorno al 1730, subito definendo l’atteggiamento fondamentale dei francesi: grande barbara energia di codesto irregolare di talento. Quarant’anni dopo, sempre Voltaire, spaventato dal successo di W. S., spostò il peso del giudizio dalla positività dell’energia sorgiva alla imperdonabilità della mancanza di regole e misura. Quando l’estetica è tutt’uno con la politica: «Per Voltaire, per l’Académie, per gli organi ufficiali della Comédie Française, per la stampa e per il pubblico colto le regole e il razionalismo erano la Francia stessa» (M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992)

 

La prima traduzione di Shakespare (1776-1783) è di Letoruneur: «una parodia», la definì Victor Hugo, e aveva ragione: nessuna fedeltà né al testo né allo stile. Non piacque neppure a Voltaire: «sono adirato con un tale Letourneur, che dicono sia segretario della biblioteca e che non mi pare un segretario del buon gusto» (Voltaire, letttera a Charles Augustin Feriol, conte d’Argental, 19 luglio 1776)

 

L’anatema di Voltaire dura fino agli adattamenti di Jean-Francois Ducis (1733-1816), che riscrisse Amleto (1769), Romeo e Giulietta (1772), Re Lear (1783), Re Giovanni (1791) e Otello (1792).

Si tratta di riscritture per la scena a partire dalla pessima traduzione di Letoruneur con drastica semplificazione neoclassica delle trame e della psicologia dei personaggi. Shakespeare arriva in scena dunque edulcoratissimo, parla in alessandrini con la rima baciata e altamente gnomici: roba da ministeri della pubblica istruzione tutt’oggi.

Però furono l’occasione per scatenare l’arte attoriale di Talma, il cui talento vagheggino e melanconico trovi più volte descritto sia nei Ricordi d’egotismo (1832) di Stendhal che nelle Memorie d’oltretomba di Chateaubriand.

«Talma recitava gli alessandrini di Ducis come se fossero prosa, spezzando la cesura simmetrica dl verso per restituirla al senso. Faceva della pantomima una delle sue principali risorse, mettendo la sua recitazione muta, il linguaggio e dei gesti, interamente al servizio della capacità evocativa…» (M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992).


 

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