"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

75. Jacques Lacan

 

 


TERZA VOCE – Quel signore pittoresco sembra Amleto.

QUARTA VOCE – Ovviamente rappresenta il mio lato raziocinante e dubbioso. Manca di rapporto con gli istinti.»

(G. Manganelli, High tea, in Tragedie da leggere, Torino 2005)

 

«Noi torceremmo il collo ai nostri padri e giaceremmo con le nostre madri»

(D. Diderot, Il nipote di Rameau)

 

 

   

Quando il gioco si fa duro, Lacan è come bomba-fine-di-mondo in Dottor Stranamore di Kubrick: «il dramma di Amleto è una specie di apparato (…) dove è articolato il desiderio dell’uomo e precisamente nelle coordinate che Freud mette per noi in luce, cioè l’Edipo e la castrazione» (Jacques Lacan,  Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59, Roma 1989)

 

Nell’Atto Zero di Amleto, e dunque nell’innominabile prima dell’Atto Primo, c’è il bambino circonfuso da una paradisiaca mamma-universo. Anche se non ha letto il Simposio di Platone, sa che i reciprocamente manchevoli sono quelli che veramente si attraggono e che saldandosi si completano. Il bambino sarà dunque il fallo che alla madre manca! Sarebbe un diletto perfetto e non un delitto imperfetto, se il Padre non intervenisse quale suo Interdetto che lo priva dell’oggetto del suo desiderio. Ecco il bivio! Saprà il nostro eroe superare la ferita e, accedendo al «Nome-del-Padre», identificarsi col confiscatore del corpo materno e, cessando di «essere» il fallo della mamma divenire l’uomo che «ha» il fallo? – Se l’ineludibile azzardo fallisse, il bambino rimarrebbe dolente a identificarsi come manchevole nostalgico fallo della madre, a lei dunque del tutto sottomesso, incapace per sempre di costituirsi come soggetto capace di Parola, Legge, Discorso, Norma!

Dovrebbe essere a questo punto evidente che per Lacan «fallo», ben altro che il «pene», è il significante di un insieme di «effetti di significato» (J. Lacan, La significazione del fallo, in Scritti, Torino1974), quelli nelle righe appena sopra elencati.

 

La soluzione del problema della castrazione [del figlio in quanto fallo fantasmatico della madre] non consiste nel dilemma: averlo o non averlo [il fallo]; il soggetto deve anzitutto riconoscere che non lo è.

(Seminari di Jacques Lacan (1956-1959) raccolti e redatti da J. B. Pontalis, Parma 1978)

 

 

Amleto resta al di qua del salto. E qui c’entra la mamma perché, per accedere al miracolo dell’edipica castrazione che emancipa dal corpo materno per fare dell’uomo quello che «ha» il fallo, la madre deve prima aver desiderato il figlio come «fallo», mentre Amleto mai è stata «il fallo-desiderato-dalla-madre».

Ovvero: «Il compito finale della madre è quello di deludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di successo se non è riuscita ad offrire, all’inizio, sufficienti occasioni d’illusione» (D. W. Winnicott,  “Oggetti transizionali e fenomeni transizionali”, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze 1958).

 

 

Madre tutta «genitale», non «desiderano il fallo, ma solo il pene (…) per il soddisfacimento diretto di un bisogno e nient’altro» (Jacques Lacan,  Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59, Roma 1989), Gertrude non ha dunque mai sognato Amleto, il quale, non essendo mai stato il fallo della madre, mai potrà accedere alla castrazione che lo consegnerebbe finalmente a se stesso. Da questo nodo mai sciolto, o mai neppure annodato, nasce «la condizione di un vivente che non è (ancora) un soggetto, dal momento che in ciò che deve costituire il suo inconscio manca il significante del fallo, manca la castrazione come cancellazione del desiderio di essere il fallo per l’Altro» (R. Galiani, Amleto e l’Amleto nella cultura psicoanalitica, Torino 1997).

 

Del tutto evidente, questa tragedia prima della tragedia, quando si è sottoposti alle mitragliate del principe sulla sessualità lubrica della femmina, dove non c’è un Io a parlare, ma l’anonimia di un moralismo senza soggetto: voce che si esagita proprio per compensare il nulla da cui viene, stereotipata impersonalità di quella che Heidegger chiama «la dittatura del Si» (M. Heidegger, Essere e Tempo, Torino 1955).

 

 

Estromesso – così ai suoi occhi - definitivamente per il nuovo matrimonio dall’orizzonte amoroso della madre, Amleto «non si incontra con il suo proprio desiderio, perché non ha più desiderio, dal momento che da lui Ofelia è stata rigettata. (…) Tutto avviene come se la via di ritorno lo riconducesse (…) all’articolazione dell’Altro, come se potesse ricevere altro messaggio che il significato dell’Altro, cioè la risposta della madre: sono quello che sono (…), sono una vera genitale (…) per parte mia, non conosco il lutto»  (Jacques Lacan,  Seminario VI, Il desiderio e la sua interpretazione, 1958-59, Roma 1989).

Tutto consapevolmente subìto in Strindberg:

 

 

«Questa nostalgia della madre, questa solitudine lo avrebbe seguito per il resto della vita. (…) Non fu mai se stesso, mai veramente libero, mai un individuo compiuto. Rimase un vischio, che non cresce senza l’appoggio di un albero»

(A. Strindberg, Il figlio della serva)


 

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