"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

96. Christopher Marlowe

 

 


 

 

Giuseppina Restivo riassume ottimamente il saggio di James Shapiro, Rival Playwrights, Marlowe, Jonson, Shakespeare, Columbia Univ. Pr., 1991: «Tra i due autori Shapiro delinea, dopo l’iniziale imitazione nel Titus Andronicus, una rivalità costante, una “artistic struggle” alimentata da un continuo gioco di polemica contrapposizione di dramma in dramma e da una “parodic response” di Shakespeare all’eroe marloviano, che dall’Enrico IV si estende fino al Pirro che fa strage di innocenti a Troia e uccide il vecchio Priamo inerme in Amleto con evidente ironia parodica della Dido Queen of Carthage. Anche se Marlowe muore nel 1593, la ripresa del suo teatro ipereroico per gli effetti patriottici data la minaccia spagnola dell’Invincibile Armada, continua da parte di Shakespeare dunque anche dopo la morte del rivale: e troverebbe secondo Shapiro l’apice proprio in Amleto dove rispetto al Tamberlaine the Great le distanze sono evidenti, ma anche una nostalgia per un mondo anacronistico e barbarico in cui si poteva agire senza rimorsi come Pirro…».

(G. Restivo, Percorsi della critica su Amleto, in Tradurre/Interpretare “Amleto”, Bologna 2002)

 

 

 

«…c’è il fatto che col blank verse quale Marlowe lo usa (altri lo avevano scoperto ma nessuno lo aveva reso così mobile e duttile, sottile ed eloquente, lirico e tragico, intimo e universale), Marlowe offre al teatro inglese lo strumento con cui esso, a partire da Shakespeare, si esprimerà. E questo non solo perché lo sostiene con la sua straordinaria fantasia, la sua ricchezza verbale, la sua profondità intellettuale, la sua percezione del “sentimento del tempo”, ma perché ne coglie, e accentua, e impone, tutta la “teatralità”.

(…)

Grande letterato, grande uomo di cultura, Marlowe è però, come Shakespeare, “teatrante”, e sa che il linguaggio del teatro non è quello della letteratura, che anche i brani più alti, da “antologia” (come per esempio i monologhi), sono soprattutto brani da “recitare”, parte di un’azione drammatica, “battuta” che un attore pronuncia davanti a un pubblico – perché questo, e non altri, è il momento supremo in cui il teatro si realizza, in cui l’evento teatrale ha veramente luogo. E se altri elisabettiani sono più abili di Marlowe, sanno costruire macchine e meccanismi teatrali più robusti, usare espedienti più sottili, elaborare intrecci più complessi e più spettacolari, nessuno fa esplodere la teatralità della parola con la violenza con cui la fa esplodere lui.

(…)

Marlowe invero inventa la parola teatrale elisabettiana, una parola cioè (come sarà in Shakespeare, in Webster) che assolve tutte le funzioni drammatiche: suggerisce una scenografia (ciò che era fondamentale in un teatro che scenografia non ne usava), crea tempo e spazio, costruisce l’azione (nessuna battaglia, nel Tamerlano, viene rappresentata sulla scena ma tutte vengono evocate verbalmente) e, mentre la costruisce, scava con le metafore e i simboli nei suoi significati; allo stesso modo, mentre crea i personaggi e delinea la trama dei loro rapporti con se stessi, con gli altri, col mondo, con la morte, con Dio, li approfondisce, ne svela le pieghe più segrete, li proietta in altre dimensioni – fisiche e spirituali – che non quelle dell’azione immediata cui appartengono. E per questa parola tesa al massimo delle sue possibilità, e in effetti protesa al di là di esse, Marlowe anche inventa un verso che non è solo capace di assorbirla e contenerla ma ne riproduce, nel suo stesso movimento, nel suo stesso ritmo, la tensione, la polivalenza e ambiguità, la tragicità.»

 

(A. Lombardo, L’eroe tragico, Roma 2005)


 

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