"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 


n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

32.  Cosa non farei «per dieci scellini»?

 


 

BECCHINO - Un atto ha tre rami: cioè agire, fare, eseguire”

(Amleto, Atto V, sc. 1)

  

«Amleto non farà nulla troppo presto» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003). A parte, naturalmente, sbudellare Polonio.  Sul fare senza por metafisiche ciance in mezzo, vedi anche Falstaff al re futuro: «non sei di sangue reale se non osi andar per le spicciole per dieci scellini» (Enrico IV parte I, I, 2), ed Enrico presto svelerà di avere già dentro di sé la capacità di  «imitare l’azione della tigre» (Enrico V, At. III, sc. 1).

 

Che fare imponga di non-sapere, chi a sue spese non lo sa? - Troppo «aggrovigliata la molteplicità dei “fenomeni” che vanno sotto il nome di fenomeno» (M. Heidegger, Essere e tempo) per ridursi facilmente a un modo giusto di porci mano. - Si passa a doversi districare da un nodo di Gordio all’altro, e, così, a forza di dar colpi machete al cosmo, ci si consuma a fare sempre come il sacrilego Macedone che, non sapendo perfino lui sciogliere, piuttosto che lasciar stare, tagliò.

 

Ancora una volta in Severino si trova dell’enigma una definizione adeguata:  «La decisione più semplice – ad esempio la decisione di prendere in mano un oggetto – presuppone, in chi decide, la convinzione che l’oggetto della decisione sia isolato dal resto del mondo, cioè non sia unito al mondo da un legame indissolubile»; perché, se una decisione «non isolasse ciò di cui essa decide, essa non si costituirebbe nemmeno» (E. Severino, La filosofia futura, Milano 2006). Non solo per lui, codesta indissolubilità che lega ogni cosa a tutte le altre è addirittura evidente. Dunque?

 

Che fare? Perché fare è pur necessario. Il gran trucco politico lo trovi in Carl Schmitt (Teologia politica, 1922) quando definisce il potere come sovrano dello «stato di eccezione»: quello che in Shakespeare si chiama appunto, come già in Machiavelli, «necessità» (nel Principe, 78 ricorrenze del suo gruppo di lemmi; un’altra trentina per quelli del convenire, che vuol dire dovere, verbo che di suo ha oltre un centinaio di ricorrenze!): «Son dunque queste cose necessarie? Affrontiamole allora come necessità, e questa parola ora ci chiama a gran voce» (Enrico IV parte II, Atto III, sc. 1).

 

 

 

È proprio di regali uomini senza scrupoli trovar sempre l’emergenza – guerre, stragi, minacce, nemici – che dia loro il carisma «della menzogna, di ogni menzogna che induca ad agire» (E. M. Cioran, La tentazione di esistere): un agire che appaia urbi et orbi necessario, che soprattutto giustifichi al mondo la necessità di loro stessi come agenti di quell’azione! (E qui, come si vede, casca l’asino).

Come vada a finire il politico onnivoro fare trascolorato di «necessità», lo sa bene Ulisse, il più politico degli uomini che proprio in Shakespeare sembra già figurare Schopenhauer: «…Indi ogni cosa si risolve in potere, potere in volere, volere in appetito; e l’appetito lupo universale, così doppiamente secondato da potere e volere, è uopo faccia una preda universale, e infine divori se stesso» (Trolio e Cressida, Atto I, sc. 3).

 

La menzogna sarà sempre la proclamazione di uno stato di eccezione che bandisca le uggiose mezzetinte del dubbio e schiacci, sotto i piedi protervi dell’ennesimo arcangelo massacradiavoli, i saggi serpentelli dialettici, la prolettica capacità di indugiare su fasci di scenari possibili più ampi del minimo indispensabile alla giustificazione dell’azione. - Agire o non agire? La domande del troppo intelligente sarebbe: “per cosa?”. Con conseguente catastrofe per un’azione quasi sempre già decisa.

 

Perché non è mai stato vero che il fumoso fine giustificasse i terribili mezzi. - Per capire basta un ricordino d’Aristotele (Topica, I, 1), che certo uno spazio magistrale nella biblioteca d’Amleto lo ebbe (cfr. M. Praz, Prefazione a J. KOTT, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006). Il fondatore del Liceo insegna che è sempre saggio andare dal più conosciuto (i  nostri disponibili mezzi) al meno (il chissà quando raggiungibile “fine”): fare il contrario è una demenza che, per il fatto di esser consueta, non diventa più intelligente. Il fine fu deciso – da sempre? fatalmente? - in realtà facendo un salto bell’e buono e a corpo morto, al di là delle piranesiane geometricità del pensiero, dritti dentro il maelstrom delle sempre più ebbre concitazioni del fare. - Sporchiamoci le mani! È il grido d’orgoglio dei facitori di mondi, dei fondatori di cooperative, dei fabbricanti d’imperi e religioni. Per loro, molto più economicamente, un fare già fatto e strafatto prova ad appiccicarsi a posteriori un qualche blablà – non servono a questo i sofisti? - che potenzi l’autoipnosi indispensabile. Tutto in ogni caso accade, direbbe il dottor Freud,  per excessus libidinis - pulsione di piacere o di morte che sia.

 

(Su tutto ciò, impossibile non ricordare l’aureo libretto di Hannah Arendt, Sulla violenza, Parma 2001. – E, almeno per noi passeri solitari dalle cadute non provvidenziali che preferiscono i bordi della storia al centro della messinscena, da non dimenticare che «io farò ciò che sono tenuto a fare» è anche una frase del Don Chisciotte).

 


 torna a  

 

     torna su