"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 

 


n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

41.  Gradi di parentela

 


 

«Ma ora, mio nipote Amleto e mio figliuolo…»

(Atto I, sc. 2)

 

 

Re Benché, «questo politico nato» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002) parla molto, e sciorina, per oculate e forse innate ipotassi (forma mentis prima che grammaticale, donatagli certo da ciò che anche Machiavelli chiama «Natura»), una ipnotica psicologia della Gestalt: tutto sta assieme, tutto torna, tutto procede insieme. Pratica la verbosità della politica come anestetica arte della messinscena, per raddolcire cuori impotenti ma forse rancorosi: Signori cari, il Re son io, passiamo all’ordine del giorno e cerchiamo di volerci bene…

 

Per Amleto, il colpo del matador è un solo tricolon, reso corposo dalla cascata di allitterazioni e dalla politicissima epanadiplosi del «nostro»: «Our chiefest courtier, cousin and our son»: Nostro miglior cortigiano, nipote e nostro figlio (Ibid.)!  L’elaboratezza del significante rafforza la strategia di avvicinamento del Re al cupo riottoso figliastro con l’evidente climax parentale: da cortigiano a figlio!

Il piccolo principe ne è travolto: tanto da non potere che cincischiare witz brevissimi e sterili, e soprattutto da non poter far altro che obbedire - e poi da solo meditare un del tutto sterile e adolescenziale suicidio.

 

Sempre più fondamentale appare dunque la scena seconda del primo atto, e il lungo monologo d’esordio di Claudio! – Il Re è già travestito e circonfuso di Necessità, e può far sua l’impersonale dittatura del Si (M. Heidegger, Essere e Tempo). Vecchia maschera micidiale di chi ti fotte imperturbabile accampando fole hegeliane sui doveri insiti allo Spirito del Tempo: non lo fo per piacer mio... – La Regalità stessa impone a Claudio di trovare un equilibrio («la bilancia»!) tra la lentezza del cordoglio  e le preste esigenze dello Stato (Fortebraccio minaccia la Danimarca!). Tra passato e futuro, i due piatti della giustizia non possono che pesare sempre ben diversamente; siamo tutti progressisti per forza, e la bilancia, proprio per essere equa, dovrà restare per sempre sghemba a pendere dal lato del futuro: lui sì, almeno secondo la più vieta vulgata di cosa sia il Tempo, gravido di nuova vita.

 

Così, nel giro di un discorso, il potere quasi per legge propria scivola tutto in mano al Re, come la caduta della goccia lungo il tubo della grondaia: lo spiccio cordoglio per il «nostro» fratello, dopo una ventina di parole veloci, diventa la saggia preoccupazione per «il nostro» il reame, «il nostro Stato»… Le ampie spirali da condor del suo pensar maestoso chiudono infallibili sui punti nevralgici. Un molto fine e accurato «I' mi sobbarco!» (Dante, Purgatorio, Canto VI, v. 135), insomma: un il Re è morto, viva il Re! di fantastica fattura che la semplicità nostra chiamerà barocca. In realtà è un baldacchino difficilissimo da smontare. Da lì, terrebbe in una mano sola tutti i Ballarò e sfonderebbe tutti i Porta a porta.

 


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