"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12, settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

 

4. Essere o

 

 

 


 

«Essere o non…»

(Atto III, sc. 2)

 

«Non troverà mai, in un’enciclopedia, una voce per il verbo «essere».»

(R. CASATI A. C. VARZI, Semplicità insormontabili, Bari 2006)

 

«L’idea che gnomi e fate esistano può sembrare una stravaganza; ma poiché non sappiamo cosa significhi ‘esistere’ preferirei tenermi sulle generali.»

(G. Manganelli, UFO e altri oggetti non identificati, Roma 2003)

 

«ciò che non siamo…»

(E. Montale, Ossi di seppia, 1925)

 

 

ESSERE: E’ il primo verbo del dramma: «Who’s there?» – Chi è là? (mentre l’ultimo è «sparare»).

Attorno all’essere o non essere si facevano vortici e girandole dai tempi biancazzurri di Parmenide, dunque dall’inizio lontanissimo di ciò che supponiamo di essere, o forse di non essere più, quando disquisiamo di cosa voglia dire essere o non essere Occidente, o, addirittura, dell’essere o non essere uomini.

 

Eppure essere è il concetto «più oscuro di tutti» , leggi quasi subito in Essere e tempo (Torino 1955), e Heidegger cita Pascal: che vede contraddizione già nel tentativo di darne ragione: come spiegare, infatti, cos’è l’essere, visto che è impossibile farlo senza già usarlo per definirlo? Siamo subito finiti in un circolo vizioso: la spiegazione usa la parola che andrebbe definita!…

 

Shakespeare ha sempre giocato con tutti i paradossi che l’(onto)logia e la grammatica permettono col to be anche nell’uso apparentemente più distratto. Questo non è che un breve campione scelto quasi a caso:  «Hai dunque paura di essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che tu sei nel desiderio?» (Macbeth, Atto I, sc. 7); quasi uguale una battuta di York: «sii quello che speri di essere, o abbandona alla morte quello che sei» (Enrico VI parte III, Atto III, sc. 1); nello stesso dramma: «sono almeno un uomo, e meno di questo non posso essere» (Enrico VI parte III, Atto III, sc. 1), che è giusto il contrario di un altro colpo di lama di Macbeth: «Chi osa far di più non è un uomo» (Atto I, sc. 7).

 

L’«io sono soltanto me stesso» (Riccardo II, Atto V, sc. 6) ricorda al volo la tautologia divina «Io sono quello che sono» (Esodo, 3, 14), ma con senso chiaro di desolata povertà, mentre Jago quello stesso Dio lo capovolge gelidamente per dir di sé «I am not what I am» (Otello, Atto I, sc. 1 64). Jago è il virtuoso del gioco delle due carte di essere e non essere: «se io fossi il Moro non vorrei esser Jago» (Otello, Atto I, sc. 1); «E’ quello che è. Io non debbo mettermi a far critiche su come si potrebbe essere a. Se non è quello che potrebbe essere, volesse il cielo che lo fosse!» (Ib. Atto IV, sc. 1).

 

 

Torniamo a Riccardo II: qui l’essere di un uomo pare dirsi solo come inganno d’un’anamorfosi: «guardata quale è, non è altro che ombre / di ciò che non è» (Atto II, sc. 2). – L’amore stesso ha esistenze appena aleatorie e problematiche: «Era non è è…» (A piacer vostro, At. III, sc. 4), del resto «niente di quello che è, è» (La dodicesima notte, At. IV, sc. 1). Perfino Falstaff cade nel tranello dell’essere credendo che il nuovo re resti per lui il complice che era: «Non mi rispondere con uno scherzo da scemo: non presumere che io sia quello che ero…» (Enrico IV parte II, V, 5). Niente è per sempre, niente del resto cambia abbastanza: «questa è la Cressida di Diomede …questa è e non è Cressida» (Troilo e Cressida, Atto. V, sc. 2), ecc. - Che però è il contrario di quanto leggi nel Sonetto 59: «Se di nuovo non c’è nulla, ma ciò che è /È già stato prima, come s’inganna la nostra mente, /che nel travaglio dell’invenzione abortisce /il secondo fardello di un bambino già nato!» (vv. 1-4).

 

 

 

Tutte le rigorose psicologie hanno testato che basta un po’ di sonno e la coscienza di essere si disfa, angosciando però molto più un re shakespeariano che il piccolo Marcel della Récherche: «Ah! Son desto? Non è vero! Chi è che mi sa dire chi sono?» (Re Lear, Atto I, sc. 4).

Stupefacente il risveglio hitleriano di Riccardo III dal suo incubo:

  

Ho paura? Di me? Non c’è nessuno.

Riccardo ama Riccardo: io sono io..

C’è un assassino qui? No. Sì, proprio io!

(Riccardo III, Atto V, sc. 3)

  

In originale, quell’«io» finale è seguito dal famigerato verbo: »No. Yes, I am». Nonostante gli spettri di Riccardo, va riconosciuto che di solito essere figli di puttana tempera l’Ego: «Ed io sono io, comunque sia stato concepito» (Faulconbridge il Bastardo in Re Giovanni, Atto II, sc. 1); «Ma quello che tu sei lo sa Dio, lo sai tu e lo so io» (Mowbray a Bolingbroke in Riccardo II, Atto I, sc. 2).

 

Perfino nei divertissements come il miracoloso Sogno d’una notte di mezza estate, Shakespeare con leggerezza lubitschiana insuffla metafisica dappertutto: «Termini filosofici quali «essere» e «ontologico» sembrano pomposi quando si tratta di adolescenti incostanti, e tuttavia non se ne può fare a meno» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).


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