"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

78. Ludwig Wittgenstein

 

 


 

BEETHOVEN. Cadere comunque in deliquio quando viene eseguita una delle sue opere.

«Che architettura!»

«E' quella sua arte del legare!» 

(G. Flaubert, Dizionario dei luoghi comuni) 

 

 

Se misteriosa è la ragione di ogni ammirazione, non lo è da meno la frigidità. Perché è bello (o brutto) Amleto? Più si cercherà di darne ragione, più ci s'impanierà tra aporie stente e frasi che si farebbe bene a sospendere a metà. Amleto è bello perché… al massimo dell’irritazione, si potrà alzare i decibel delle tautologie per ribadire – qualunque esso sia – un delirio.

 

Sentirsi forti poi dell'essere eco di un'opinione di tutti – stiamo discutendo Shakespeare?! - è un trucco perfino violento: si ostenta il ringhio del branco in coro al solitario che vorrebbe - cosa di più mite? - essere solo ragionevolmente convinto di qualunque possibile bene a proposito di Shakespeare. Ma nessuna delle due parti è innocente: ovvio che, sul piano della persuasione, vinca sempre il disamore che sfida – subdola malizia dei disincantati – quella cosa flebile che è una ragione non più che ragionevole a prendere il campo a un grado zero di piacere: armi impari.

 

In realtà, come nelle tragedie, alla fine non si salva nessuno, perché la ragione e i suoi metodi sono indifferenti sia all’amore che al disamore, e se non si può dimostrare la bellezza di niente lo stesso vale per la bruttezza.

Quando Ludwig Wittgenstein  (Pensieri diversi, Milano 1980) scrive: «“Il grande cuore di Beethoven” - nessuno potrebbe dire “il grande cuore di Shakespeare”», lui stesso saprà di non aver scritto niente che non possa essere capovolto, o anche negato del tutto: potendo apparire altrettanto evidente e ingiustificabile che sia Beethoven che Shakespeare che Wittgenstein non abbiano alcun cuore.

 

Qui non sono buone Muse né l’imbarazzo né la logica, essendo tutte le arti tra quelle cose che se non si amano non si capiscono. Ogni tanto pare, anche restando sul suo modo di procedere, che Wittgenstein confonda i piani. - Per esempio quando scrive:

 

«Quando, ad esempio, sento le espressioni ammirate che per secoli sono state dedicate a Shakespeare da grandi uomini, non  posso sottrarmi al sospetto che quelle lodi siano state solo convenzionali.»

 

E se è indubitabile che «migliaia di professori di letteratura» lo spacciano nelle scuole dell'universo lodandolo «senza comprenderlo e per ragioni sbagliate», questo avrà a che fare certo con una certa ontologica povertà di tutti i corpi docenti, ma soprattutto colf atto che tutte le ragioni sono sbagliate.

 

Quel tipo di mistificazione che è proprio di ogni ammirazione unanime corrisponde col grado di consenso ecumenico proprio dei cosiddetti classici. Manganelli lo sapeva così bene da consigliare di leggere ogni maggiore come un minore (la Divina Commedia come I Tre Moschettieri!), per essere finalmente soli col testo, sufficientemente intimi e clandestini per davvero esserci.

 

Un uomo intelligente che si sente costretto dalla sua stessa onestà a mantenersi in una posizione minoritaria vedrà facilmente i difetti della maggioranza. Lì non avrà torto. La cosa lo porterà a farsi ancora più minoritario di prima, acquisendo nel tempo ragioni sempre più solide a favore della sua differenza dalla massa degli altri. Quanto meno, perché lui avrà affrontato l’avventura dei suoi pensieri con più cuore di chi ama i consensi pigri. Ma in realtà non c'è luogo che non rischi il ridicolo: «Ho bisogno dell'autorità di un Milton per essere veramente convinto. Di lui posso presumere che non fosse corruttibile.» Corruttibile?

 

Ma non c'è nessun Milton incorruttibile abbastanza, e qui basta leggere Wittgenstein come lui leggeva Il ramo d'oro di Frazer (Milano, 1992)

Provando e riprovando, arriva giusto sulla soglia di una – ma non più che eventuale - ammirazione astratta e teorica, fredda come la presa d'atto di qualcosa che semplicemente non si può evitare che sia, ma che in realtà per lui non è masi stata:

 

«Si potrebbe dire che Shakespeare mostri la danza delle passioni umane. Perciò dev'essere obiettivo, altrimenti non la mostrerebbe - se mai ne parlerebbe. Ma queste passioni ce le mostra mentre danzano, non naturalisticamente.»

 

… quel si potrebbe dire non è tutto un programma?

E come stabilire una gerarchia che non sia ideologica tra naturalismo e danza?

Tutte le volte che Wittgenstein prova (pare proprio nel senso dell'esperimento) a dire bene di Shakespeare è cercando di afferrare una sua legge – una legge! - segreta, che però ogni volta, come ipotizzata, gli sfugge:

 

«In senso ordinario, le similitudini di Shakespeare sono cattive. Quindi, se ciò nonostante esse sono buone - e io non so se lo siano -, è chiaro che fanno legge a sé. Per esempio potrebbe essere il loro suono [Klang] a renderle plausibili e veritiere.»

 

«Non è che Shakespeare ritragga particolarmente bene i tipi umani e pertanto sia veritiero. Shakespeare non è fedele alla natura. Ha invece una mano così agile e un tratto così personale che ciascuno dei suoi personaggi appare significativo, degno di essere visto». 

 

 

Si ammetterà che non sono grandi passi avanti rispetto alla retorica dei «professori» che spacciano Shakespeare «senza comprenderlo e per ragioni sbagliate».

 

Il punto è che stiamo spiando un tentativo di comprensione della bellezza in assenza di piacere. Come extraterrestri che cercano di capire il piacere sessuale quando loro si riproducono con un quantum di pura forza del pensiero.

 

Anche se Wittgenstein non crede nella psicanalisi, la cosa sa di compensazione:  non provando piacere, cerca la legge del piacere: ma una legge è solo una procedura di controllo, di verificabilità e di previsione: un marchingegno da cui, che sia Dante o Céline o Bruno Vespa,  non si salva per fortuna nessuno. 

 

All’opposto della sempre politica legge, c’è la «natura asociale del piacere» vero (R. Barthes, Il piacere del testo), e Wittgenstein ha ragione a non credere nella verità di un’autentica ragione sociale dell’amore per Shakespeare. L’errore, volendo, è scrivere Shakespeare dove andrebbe scritto Letteratura.

 

Un azzardo più interessante è questo: 

 

«Un sogno è composto i un modo tutto sbagliato, assurdo, eppure giustissimo: in questa strana composizione desta un'impressione. Perché? Non lo so. E se Shakespeare è grande, come di lui si dice, allora si deve poter dire di lui: è tutto falso, ma quadra - eppure è tutto giusto secondo una legge sua propria.

Ci si potrebbe esprimere anche così: se Shakespeare è grande, può esserlo solo nella massa dei suoi drammi, che si creano una lingua e un mondo del tutto peculiari. Quindi Shakespeare è del tutto irrealistico. (come un sogno).» 

 

Per l'autore che concluse la carriera facendo dire nella Tempesta che siam fatti della materia di cui son fatti i sogni, andrà certo benissimo.

 

Wittgenstein, che è uno degli autori più onesti che si possano leggere, anche quando mette in gioco la sua capacità di leggere quei sogni, bara sempre un po’, o almeno bara il metodo che s’è scelto:

 

«Che io non capisca [Shakespeare] si spiegherebbe con il fatto che non  so leggerlo con leggerezza. Non so leggerlo, cioè, come si guarda uno splendido paesaggio.»

 

Si danno per scontate cose sbagliate.

Non c'è dell'arroganza a pensare che chi ami Shakespeare lo faccia come se fosse un paesaggio? Non è addirittura proprio questo uno dei tautologici modi dei «professori»? Un paesaggio… Viene in mente Goethe che diceva che anche il più fantasmagorico dei tramonti, dopo cinque minuti, stufa. 

 

Shakespeare da leggere come se fosse paesaggio, e quindi natura, - vedi il paradosso - era il modo sublime ed esaltato dei romantici, che quando aprivano un libro del Bardo, come se fosse il volume con le formule del mago Atlante, avevano la sensazione di squadernare trombe d'aria, oceani in tempesta e raffiche sulle brughiere. Wittgenstein non dice poi neppure natura, ma appunto paesaggio – che sembra tanto avvicinarci alla sua riduzione borghese a cartolina.

E infatti, che farne di una cartolina:

 

«Verso Shakespeare potrei avere solo un'ammirazione stupefatta: ma non saprei mica cavarne qualcosa». 

 

Cavarne qualcosa è ciò che un signore ecologicamente educato mai pretenderebbe di fare con un paesaggio: il meglio che si possa fare è lasciarlo lì così com’è. E questo ci rimanda alla casella di partenza:

 

«Capisco come si possa esserne ammirati e chiamarla l'arte per eccellenza, ma a me non piace.»  

 

 

«Quando si è artisti e si creano film è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici la bellezza ti sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto incoerenti».

 

Quest’ultima frase non è evidentemente di Wittgenstein, ma dell’ultima intervista che rilasciò Ingmar Bergman e risponde da sola a tutto il metodo sopra illustrato.

 

 

Poche righe dopo l'ultima annotazione su Shakespeare, leggiamo questo: «Se dunque vuoi rimanere nel religioso, devi lottare».  Forse tra i pensieri diversi di questo libro non libro (come quasi tutti i suoi)  le relazioni sono labili quanto lo consente il fatto di essere scritte dallo stesso uomo nello stesso periodo della sua vita: dunque anche nulle. Ma azzardiamo, e torniamo alla prima frase che abbiamo riportato, quella che ci sembrava meno giustificabile: «“Il grande cuore di Beethoven” - nessuno potrebbe dire “il grande cuore di Shakespeare”»: quel grande cuore è il cuore religioso? Che Shakespeare sia forse lo scrittore meno religioso che sia riuscito a intrufolarsi nel Canone, è un pensiero già pensato, e un sospetto necessario e ineliminabile passando da Falstaff, a Macbeth, a Prospero - et cetera.

E' il religioso il problema? 

 

 

Vedi anche, nel numero del c.s. su Valéry: Il piacere di Heisenberg


 

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